Giovedì 26 agosto 2004





Niente trattoria: ci vediamo da Paolo, alta Fontanbuona, campagna. Una vecchia casa che ha restaurato e dove alla pensione è andato a vivere lasciando la Riviera. Dalla strada asfaltata si entra per una cinquantina di metri nel declivio di un bosco di castagni: terreno pulito, muschioso e - sicuramente - fungoso; un inno al "domestico". A mezzogiorno, davanti alla casa, ci sono due fuochi accesi con carboni sufficienti per due grigliate; in attesa: sarde e calamari. A parte, un tegame di triglie in umido, già pronte e solo da far rinvenire. Paolo ha molti amici pescatori e lui stesso è stato pescatore. In un vano del muro di casa, al fresco, brillano certe formaggette: capra e pecora. Una offerta grandiosa per un gruppo che non supera la decina: durante le ferie sottrarsi alla famiglia non è giustificato.
La giornata è calda ma per noi c'è l'ombra dei castagni. A far la differenza rispetto agli incontri abituali il numero ridotto e l'idillio dove siamo immersi. Forse per questo non si parla del "museo"; come non fosse roba per quel giorno o fosse venuto a noia. Invece finisce che si parla di partito, comunista naturalmente. Avviene inavvertitamente a seguito d'una cosa riferita da me. Ora, mentre ne scrivo mi viene il dubbio che quel che è seguito abbia un rapporto anche con la frase pronunciata da Carmelo la volta scorsa: che ci voleva nel museo una stanza dove mettere il partito badando di non farlo uscire. Ma i fatti come si son svolti hanno preso le mosse da una mia battuta.
Stavamo armeggiando attorno alle griglie quando dico a Paolo che la nostra proposta di dar vita ad una iniziativa pubblica per raccogliere gli "archivi operai" era andata a bagno. La compagna che dirige il Sindacato pensionati l'aveva sostenuta con entusiasmo ma, mentre già stava passando alla fase organizzativa, era arrivato il veto dalla segreteria della Camera del lavoro. La cosa non si doveva fare, aveva detto il segretario confederale, perché andava a sovrapporsi ad una iniziativa analoga. Pensa, ho detto a Paolo, che la compagna dei pensionati mi ha confessato di non saperne niente.  Dispiaciuta, aveva però fatto buon viso "per carità di patria". La conclusione era che del nostro progetto non se ne sarebbe fatto nulla. "Secondo te,  ho chiesto a Paolo,  ci sarà davvero un progetto concorrente?".
Lui mi ha guardato per vedere se il mio stupore fosse genuino e poi ha detto: ma sei proprio tu a ragionare così? Perché - è una cosa che ripete sempre - quando uno che ha studiato si stupisce vuol dire che non ha studiato abbastanza. E il suo "proprio tu" stava a significare "ma sei scemo?". Scuote la testa e, in dialetto, ha aggiunto "ma non capisci che è così, che è sempre stato così anche quando ci andava bene, che continuano a essere così, che non sanno essere diversi". Il tono di Paolo è duro, insofferente, esprime un desiderio di distacco; come dire "uffa, lascia perdere ste cose che mi deprimono". Sembrava una baruffa e gli altri che erano attorno si sono avvicinati per sapere di cosa si trattava così ho dovuto raccontare di nuovo la storia. Ma questa volta son stato attento a togliere lo stupore. E siamo finiti a parlare di partito anche se all'odg la stanza di Carmelo non c'era. Forse "parlare" è troppo; perché i commenti espressi erano privi di intenzione dialogica, come si trattasse di questioni giudicate chiuse per sempre; nulla da approfondire.
Non è facile riassumere; mi limito a ricordare qualche frase di cui ho preso nota. Consapevole che è una materia che a semplificare troppo non ci resta dentro niente. Perché più del detto, che alla fine sono spiccioli, conta il non detto: cioè quello che le persone non ti dicono perché gli pare ovvio, scontato. Un solo esempio, forse non il più significativo, a cui in diversi hanno alluso: il principio di autorità. Nicola ha detto "pochi discorsi: per più di 20 anni ci hanno detto cosa si doveva pensare anche delle cose che conoscevamo meglio, per esperienza diretta, come la fabbrica. Contava solo quello che diceva il dirigente: era il vangelo. Il verbo, che a sua volta aveva ricevuto da uno sopra di lui, il quale a sua volta da un altro e così via fino ad arrivare al verbo stesso che poi sarà stato Togliatti, Stalin, l'Armata rossa o chi lo sa. Sinceramente: noi allora non ci pensavamo nemmeno a mettere in dubbio il verbo. Cose che non convincevano ce n'era ma prima di tutto veniva l'idea, il comunismo, la fede. Infatti la nostra organizzazione era uguale a quella della chiesa col papa, i vescovi e anche i martiri. Nicola (n. 1932), tornitore pensionato, ha vinto per due anni di seguito il premio come miglior diffusore del verbo - lui l'Unità la chiama così - e si considera un esperto della materia. Non è un pentito perché è sempre stato uno spirito libero. A suo tempo, dice, aveva accettato un ruolo gregario consapevole che altro spazio non gli sarebbe stato lasciato: diffondeva l'Unità ma evitava la sezione.
Era religione anche al tempo della guerra partigiana, ha detto Ezio. Solo che si sentiva meno perché i partigiani erano giovani, cosa che di per sé già contrastava col principio d'autorità. Ma religione era. Tant'è che quando alla fine della guerra il partito gli aveva chiesto di entrare nella polizia di stato lui aveva detto sì. Ma, ammette Ezio, lassù, tra i partigiani, l'Armata rossa aveva fatto sognare. A loro giovani e armati appariva l'inizio del mondo nuovo; non per niente aveva cucinato i tedeschi. Ezio aggiunge che a lui c'erano voluti almeno 10 anni per capire che con la religione la partita non si vinceva. Era stato alla fine degli anni Cinquanta: "non avevamo la cultura politica necessaria a combattere. Il partito comunista era diretto da predicatori, utopisti, uomini il cui credito personale derivava dall'aver patito la prigionia, il confino, il Tribunale speciale. Persone apprezzabili, a volte di grande intelligenza, che però venivano dallo stesso mondo che avevamo sconfitto. I loro discorsi non servivano a capire le cose che stavano succedendo nella fabbrica: ristrutturazioni, licenziamenti, paralisi delle Commissioni interne. Abbiamo fatto una infinità di scioperi ma non trovavamo mai il tempo per discutere davvero di politica. I nostri problemi non corrispondevano a quelli di cui leggevi quotidianamente sul giornale o andavi a discutere in sezione. Lì si parlava sempre di organizzazione mentre noi lottavamo per il lavoro, il pane". La Russia non bastava più; anzi: era fonte di grattacapi. "Ma che sistema è che se non sei d'accordo ti arrivano i carri armati? ".
Elio e Paolo sono entrati in fabbrica negli anni Cinquanta. Più giovani di Ezio e Ugo hanno vissuto insieme a loro il caos delle ristrutturazioni del dopoguerra, la lotta per la sopravvivenza. La presa del partito sugli avvenimenti era scarsa, dicono; tutto il contrario dei suoi meccanismi interni che invece erano sempre più efficienti. Accorgersi che la macchina girava a vuoto non era facile: stando all'interno sembrava che coesione e disciplina bastassero per dominare gli avvenimenti. La prima virtù dell'iscritto era la fedeltà. Anche se l'URSS non era più quella delle vittorie dell'Armata rossa. Erano gli anni della "difesa statica del socialismo" - così Elio - che voleva dire prendere quello che arrivava, come le rivolte in Polonia e in Ungheria e pagare pegno "come se le avessimo represse noi". L'idea politica principale, era che "alla fine il mondo sarebbe diventato comunista perché il capitalismo sarebbe franato. Le fabbriche in crisi ci sembravano la dimostrazione proprio di quel fatto lì. Invece erano la prova del contrario. Che il capitalismo si trasformava e cresceva".
Ugo annuisce pensoso. "Chissà, dice, se quelli che allora hanno fatto di tutto per metterci all'angolo erano davvero così furbi. Perché alla fine hanno proprio fatto il pieno: ci hanno bastonato bene e neppure ci hanno dato il modo di capir qualcosa...".
Ugo, Ezio, Elio e Paolo descrivono un "partito" la cui valenza prescinde dai suoi membri. A differenza di altri più giovani, come Luigi o Lino o Carmelo, iscritti al partito nel corso degli anni Sessanta, per i quali il partito ha prevalentemente il volto e le parole del compagno di lavoro reclutatore o del dirigente periferico. Per loro niente fascino della rivoluzione d'ottobre o dell'Armata rossa. Laici che quando si sono convinti che il partito tirava dalla parte opposta, l'hanno mollato senza troppi singhiozzi.
Dai racconti di tutti emerge come il legame col partito - quale sia stato - ha influenzato non poco la vita di ognuno. Le parole usate per parlarne sono le stesse ma sono i contesti a indicarne le differenze di significato. Non potrebbe essere diversamente. Il partito discriminato, avversato e processato negli anni Cinquanta, è molto diverso da quello blandito dalle direzioni negli anni Settanta quando anche importanti dirigenti specie del personale ne avevano in tasca la tessera. Ancora diverso dal partito che a partire dagli anni Ottanta naviga nell'acqua limacciosa della gestione della cassa integrazione, della mobilità, delle esenzioni. Di questo in particolare ha parlato Piero (1940). Tecnico informatico ha lavorato per molti anni all'estero, sempre per Ansaldo. Della Cassa integrazione Piero è considerato una autorità perché, dai primi anni Ottanta, in corrispondenza delle grandi manovre finanziarie e produttive che hanno interessato il gruppo, ha potuto seguirla dall'interno. Il mio ufficio, spiega, era "una specie di tunnel da dove passava proprio quel tipo di decisioni".
Piero è stato un dirigente ma di seconda linea. E' un "compagno" e all'azienda le sue idee erano note ma era anche un tecnico impiegato prevalentemente all'estero, il che lo collocava in una sorta di limbo. Le stanze del potere, di quelli che in azienda contavano, lui però le ha conosciute e per questo è considerato uno che sa. "Se ancora il partito comunista disponeva di un capitale, dice Piero, è stato in quegli anni Ottanta che lo ha dilapidato". All'epoca lo scopo delle direzioni aziendali, tutte - "un fatto nazionale non solo genovese" - era recuperare il pieno controllo della forza lavoro. Non era possibile procedere ad ammodernamenti di impianti, scorpori, chiusure e altro del genere - tutta roba maturata sotto la spinta dei conflitti degli anni Settanta - senza rimuovere i paletti e le condizioni dettate dagli operai negli anni precedenti. Per lo scontro frontale non c'erano le condizioni politiche; era impossibile. La soluzione era stata, oltre la mega inflazione, la "mobilità" ottenuta con la Cassa integrazione, in entrambi i casi il finanziamento era stato accollato a tutti i cittadini italiani. Con la Cassa integrazione le direzioni aziendali aveva liquidato un'epoca. Avevano dato inizio al regno dell'incertezza e in pochi mesi avevano azzerato solidarietà costruite durante oltre 10 anni di lotte. La risposta sindacale e del partito era stata di porsi al loro servizio. C'era da fare il lavoro sporco - decidere chi, quando e per quanto se ne doveva stare a casa; tanto vale che lo facciamo noi, avevano detto. Così - era stata la loro giustificazione - avrebbero limitato i danni.
Pippo conferma. "E' stata proprio la fine delle certezze a cui avevamo lavorato per anni. Il castello che avevamo costruito è rimasto integro: sono rimaste le assemblee, generali e di reparto, così come il voto sulle piattaforme. Ma in scena era comparso un attore di cui nessuno si ricordava più: l'insicurezza". In oltre 10 anni l'operaio non aveva acquistato dei poteri - che non sono mai definitivi e men che meno in fabbrica - però degli strumenti per esercitarli e ricostruirli di continuo, sì. La paura li ha svuotati di colpo. Continuavano a chiamarsi delegati ma in realtà si erano trasformati in bande, "clan con in mano la facoltà di farti lavorare o lasciarti a casa; così, senza preavviso, con una letterina". Ogni sindacato aveva le sue quote di garantiti che apriva e chiudeva a suo piacimento. A essere spediti a casa erano stati i rompicazzo, gli inutili, chi non faceva atto di ossequio o, semplicemente, chi non stava al gioco. S'era visto di tutto: dalla gente che veniva cassintegrata per essere mandata a lavorare qua e là a comodo di capi e capetti, all'assunzione di parenti e amici mentre c'erano centinaia di operai in mobilità, fino ai casi di corruzione e di ricatto più imbarazzanti.
Piero ha ricordato casi a sua conoscenza ma, tra i presenti, tutti ne hanno da vendere a cominciare da quelli personali. "E' lì che sono caduti, dice Piero. Lì è finito definitivamente il partito: sulla Cassa, sul sottogoverno, sui soldi. Altro che Muro di Berlino". Ascoltiamo in silenzio. Forse è vero: la storia del partito comunista, il loro, quello della fabbrica, è finita allora. Anche perché quelle fabbriche sono scomparse e in quelle di oggi nessuno sa con precisione cosa succede. Il vantaggio, quando di una storia si conosce la conclusione, è che finalmente si può raccontarla depurata della retorica e dagli interessi occasionali con cui per anni è stata riproposta. Guardo gli altri che sono lì con me e mi sembra che non abbiano aspettato oggi, sabato 26 agosto 2004, per chiedersi se le cose di cui per tanto tempo avevano provato orgoglio - fede, disciplina, intransigenza, centralismo - o quelle che li avevano fatti sentire diversi dagli altri - onestà, rigore ecc. - non fossero state più che buone intenzioni, simili alle famose pietre che lastricano la via dell'inferno.
Questioni serie di cui oggi parliamo in un clima disteso grazie anche all'ombra dei castagni e all'accoglienza di Paolo. Da quegli anni Ottanta ne sono passati oltre venti e tra i presenti sembra prevalere il disincanto.


Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


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